È colpa mia se siamo diventati indifferenti più poveri più tristi e meno intelligenti
Stanotte ho vinto. Per la prima volta da quando voto è stata una vittoria netta, schiacciante. Eppure ho faticato a prendere sonno. Continuava a tornarmi in testa il Teatro degli Orrori che ci si prospetta: le dimissioni di Renzi, le borse in subbuglio. Ma soprattutto i tanti amici che hanno votato Sì accigliati, sconfitti, arrabbiati. In certi casi persino incarogniti e irriverenti: ora goditi Salvini, goditi Grillo, goditi il crollo delle borse e prenditi “oneri e onori” di quello che verrà dopo. Ho visto amici perdere la brocca e quasi il rispetto, soffrire come se fosse morta la democrazia. Ho ricevuto messaggi sarcastici, carichi di panico. Cavolo, è davvero colpa nostra? Colpa mia?
Eccomi: ho rifiutato il cambiamento, la velocizzazione della macchina statale. Ho fatto vincere il populismo e l’antipolitica. Io. Proprio io. Socialdemocratico impenitente, sempre a sinistra in 22 anni di voti, una scheda elettorale e mezzo timbrate diligentemente. Proprio io ho fatto questo casino per una volta che mi sono rifiutato di turarmi il naso?
Ho preso sonno tardissimo e mi sono risvegliato due ore dopo, pronto a confessare il mio senso di colpa e a metterlo a disposizione di chi si sentisse nella mia stessa posizione ma fosse indisponibile a pentirsi delle proprie idee.
Ecco la mia autoanalisi. Gratis.
Dice: era ovvio che Renzi si sarebbe dimesso, dovevamo votare per difendere il governo
No. Non ho scelto io di trasformare la campagna referendaria in un plebiscito pro o contro il presidente del Consiglio. A meno di attacchi ischemici o perdite di memoria di cui non sono a conoscenza, mi pare che sia avvenuto il contrario: un premier forte decide di andare all’incasso con la Riforma. Mentre aspetta il voto si indebolisce, ma non può più tornare indietro.
Poteva essere una campagna nel merito delle cose. Qualcuno invece ha deciso che sarebbe stato un dies irae. Che la vittoria, ove non raggiungibile nel merito, dovesse essere ottenuta promettendo chiusure di cantieri aperti da 35 anni, ponti sullo Stretto, condonando disastri ambientali, rinnovando contratti, autorizzando mance e prebende nella legge di Bilancio, etc, etc, etc.
Si è scelto di affidarsi alle fritturine di pesce e ai milioni per il golf (60!) per convincerci a risparmiarne 20 sul Cnel. Questo di per sé dovrebbe essere inaccettabile per un elettore di centrosinistra. Che non lo sia è una constatazione amara.
Per quel che mi riguarda – se si accetta la mia buona fede – ho votato nel merito della riforma, me la sono soppesata per mesi, ho sperato nei quesiti disgiunti per dire Sì sul Titolo V e alla fine ho deciso che non ne valeva la pena considerando tutto l’insieme (ripetere più volte, nel caso alzare la voce, di fronte agli amici isterici per il lutto).
Dice: la legge poteva essere migliore, ma dovevi turarti il naso e votare, perché eri consapevole delle conseguenze
No. Farlo significa accettare un ricatto permanente che ogni volta sposta il limite più in là. Quando la smetteremo di turarci il naso? E poi perché mi devo turare il naso sulla Costituzione, proprio su quella? Quand’è che cominceremo a pretendere una politica all’altezza del suo ruolo invece che ingobbirci per andarle dietro? (Non sei un Turigliatto, non sei Salvini e non sei Grillo. Forse sei un po’ Civati e un po’ Fassina)
Dice: hai rifiutato la velocizzazione della macchina dello Stato, tempi certi per le leggi, una politica meno farraginosa
Sì. E l’ho fatto consapevolmente. Dove sta scritto che la politica deve essere veloce? Non è forse vero il contrario? Non è forse vero che la politica dovrebbe essere il luogo della ponderazione, proprio perché ogni scelta ha conseguenze in un lungo arco temporale? Non sarà che prima di cambiare le regole della politica si devono cambiare i politici e la loro formazione? E non parlo genericamente di “onestà”, ma di idee (vedi sotto).
Dice: ma dopo Renzi non c’è più nessuno
Può darsi. Ma questa è una responsabilità che si deve assumere Renzi stesso. Ha trasformato un partito di seconde linee, residuati del tempo che fu, in un comitato elettorale senza riserve né formazione (se escludiamo la miserrima Leopolda). Ha detto “Stai sereno” a tutti e li ha tolti tutti di mezzo nel momento della massima potenza. Ha azzerato il confronto, umiliato gli avversari, ha promesso rottamazione e poi imbarcato (leggi: Campania, Sicilia) i peggiori campioni della politica da prima Repubblica. Della serie “Non mi frega un cazzo di come vinci, basta che vinci”.
Sono stato dentro il Pd per due anni dopo la sua nascita. Era il Pd di Bersani e si faceva così: nei circoli si discuteva, si raggiungevano gli accordi. Poi arrivava il deputato da Roma e diceva “contrordine compagni”. E tutti facevano come diceva il deputato. Grugnivano, ma obbedivano. Faceva un po’ schifo e per questo me ne sono andato, ma si stava tutti insieme in una stanzetta senza riscaldamento a credere in qualcosa.
Oggi è peggio. Perché il partito è in mano a un gruppo di potere senza ossigeno, senza ricircolo d’aria, senza confronto, governato con una chat su whatsapp dai luogotenenti del capo.
Chi sgarra non ha futuro, chi non piace perde l’X-Factor, chi fa brutta figura salta un turno. E alla seconda sei fuori: manco Briatore in The Apprentice. Chi pensa troppo fa rallentare tutti e quindi è malvisto.
Dice, quasi urla: il fronte del No era una accozzaglia, hai regalato a Salvini, Grillo e Berlusconi la vittoria
Non riesco a non soffrirne. Però Salvini e Grillo ci devono arrivare, al governo. E mentre il 40 per cento di Sì ha un solo padre, il Pd, il No ha molti azionisti, nessuno dei quali in grado di camminare sulle proprie gambe.
Dice: abbiamo perso l’unica occasione per il cambiamento
Non è vero. Abbiamo perso l’occasione di cambiare male. Abbiamo l’opportunità di cambiare meglio.
Come? Per esempio potremmo evitare di scimmiottare la politica americana dei grande leader – ché poi quando vai in giro si vede che sei un provinciale con i calzoni corti – e ricordarci di essere europei, che il Pd è figlio di due tradizioni pesanti (Pci e Dc), di gente che ragionava sulla base di ideologie potenti, in nome delle quali sono state fatte grandi schifezze ma anche scelte meravigliose (e checché se ne dica ci hanno dato diritti e prosperità).
Poi potremmo ricordare che il Pd in Europa fa parte del gruppo dei socialisti e democratici: fare gli anti-Europa a corrente alternata, come accaduto in questi mesi a Renzi, salvo poi incassare il favore degli odiati Schaeuble e Juncker significa che qualcosa non va in noi. Ma soprattutto avvantaggia i populisti veri (M5s e Lega) che contro l’Europa sbraitano tutti i giorni, e finiscono – ironia – per sembrare più coerenti.
Alcune domande autoreferenziali per orientarsi:
– Siamo amici o nemici politici di questa Europa?
– Che Europa vogliamo?
– Come la vogliamo raggiungere?
E soprattutto, che Italia vogliamo?
– Che diritti del lavoro?
– Che università, che scuola?
– Che cittadini, cacchio, che cittadini vogliamo? Li vogliamo da libro di Baricco, da film di Muccino? O vogliamo che sappiano affrontare anche le frasi con più di una subordinata?
A cosa serve invocare il cambiamento per essere moderni se poi le nuove generazioni sono meno alfabetizzate (in senso classico così come in senso di informatizzazione) di quelle precedenti?
Che realtà vogliamo? Vogliamo affrontare la complessità o solo ridurla a scopo elettorale? Vincere nel modo più difficile o fottere con le fritturine di Agropoli e le comparsate da Barbara D’Urso? Inseguire sempre gli altri o costruire una strada nostra?
Per quel che mi riguarda la risposta per cambiare è il ritorno all’ideologia – sì, crocifiggetemi. O quantomeno a una idea non primitiva. Non una idea-rutto come quella della Lega (fuori dai coglioni tutti quelli che non sono me) e nemmeno un’idea poco più raffinata come quella dei 5 stelle – onestà – che a ben vedere dovrebbe essere un prerequisito di tutti e comunque gli si sta ritorcendo contro. Perché poi quando governi tu e tutti sono onesti devi pure decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa fare e cosa no.
La morte dell’ideologia in favore della modernità liquida ha creato una palude dentro cui è stato nascosto di tutto: si è ingoiata la Grecia, lo stato sociale, ha ucciso i sindacati (omicidio-suicidio) e sta ammorbando la varietà di pensiero. In nome della modernità, 15/20 anni fa, è esplosa la globalizzazione. La sinistra, un tempo schierata contro questa esplosione, ha lavorato 15 anni per snaturarsi e adeguarsi al mondo globale. Oggi osserva sbigottita mentre il localismo è diventato appannaggio della destra. E quasi quasi ci ripensa.
Ma per guadagnare terreno non bastano i mantra: modernizziamo il lavoro, modernizziamo lo Stato, modernizziamo la burocrazia. Serve dire anche cosa c’è oltre: quali sono i limiti invalicabili di dignità del lavoro, quali sono gli ambiti di sviluppo in cui investire, quale politica energetica ci può salvare dalle fonti fossili, quale Stato vogliamo: assistenzialista, paternalista, sussidiario, privatizzato?
Davvero pensiamo che sarebbe bastato un Sì per superare tutto e lavorare sereni? Che Salvini, Grillo o chi per loro sarebbero più lontani da Palazzo Chigi se Renzi domattina sedesse ancora a Palazzo Chigi, al suo fianco Verdini e Alfano?
Fabio Amato - Autoanalisi di un vincitore senza gioia
L'immagine iniziale è di Karen Knorr - http://karenknorr.com/photography/belgravia
giornalista mancato
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